Vivendo
in una città come Milano, profondamente esteta e, che lo si voglia ammettere o
no, molto attenta alla bella “superficie” di cose e persone, mi capita spesso
di incontrare per le strade del centro donne di un’età indefinibile estremamente
somiglianti le une alle altre: sopraciglia disegnate dal trucco semipermanente,
piccoli nasi rotondi, labbra a “canotto”, capelli lunghi e lisci che ricadono
su un corpo magro e palestrato.
Se ne incontrano a decine, quasi sempre vestite
allo stesso modo, al punto che ci si chiede se non ci sia una fabbrica di donne
dalla quale queste bamboline escano prodotte in serie, come le famose Barbie
con cui tutte quante abbiamo giocato da bambine. “Fabbrica di donne”, ecco che anche io con
questa espressione cado nell’inganno: anche io rischio di dimenticarmi che sono
donne, che vivono, pensano e amano esattamente come tutte le altre.
Ma
da cosa dovremmo capirlo? Questi volti tirati e modificati dalla chirurgia
estetica ormai non riescono a mostrare più niente che appartenga all’anima
della donna che vi sta dietro. Più di 40
muscoli della nostra faccia danno origine a ben 10000 espressioni facciali: 10000
sfumature dei nostri pensieri e delle nostre sensazioni. Ma una faccia rifatta e “contraffatta” perde
questa possibilità. Quando ci si relaziona a una di queste donne non si capisce
bene se sia imbronciata, allegra, triste o innamorata. Si ha la sensazione di
parlare con una maschera. Ma come faranno queste donne a esprimere i loro stati
d’animo usando solo le parole? Non diventa
più difficile la comunicazione con gli altri, senza poter usare veramente la
faccia?
Ma c’è uno scopo ben
preciso che ha spinto queste donne a barattare la propria faccia con la maschera:
il bisogno impellente, insopprimibile, di
cancellare le proprie rughe.
Eppure, anche quelle,
non parlano forse di noi? Non servono a far capire meglio chi siamo, da dove
veniamo e cosa facciamo? Perché negarle? Cancellando le rughe non cancelliamo
forse una parte di noi stesse, quella parte della nostra vita, delle nostre
esperienze, delle nostre gioie e sofferenze, che è anche contenuta proprio nei
nostri anni e nelle nostre rughe?
Se
avessi potuto, qualche anno fa, anche io avrei cambiato la mia faccia. L’avrei
resa più dura, più sicura di se stessa e più determinata, per poter apparire più
forte ai colloqui di lavoro e poter scoraggiare quei fraintendimenti e “sfruttamenti”
lavorativi che poi ci sono stati. Ma adesso, a distanza di anni, sorrido a
ripensarci. Si può cambiare veramente quello che si è dentro modificando solo la
propria faccia? O non è proprio grazie a quella faccia, quella e solo quella
che abbiamo, che la nostra anima può fare quel percorso di evoluzione che ci
porta a diventare individui migliori, proprio attraverso le sofferenze, le
fregature e l’inevitabile tempo che passa? E perché dobbiamo rinunciare a
mostrare agli altri il risultato che un lavoro così importante ha prodotto
sulle nostre facce?
Che abbia rughe, difetti, occhiaie, borse o cicatrici, è giusto
che la nostra faccia rimanga lì, così com’è. Unica e irripetibile. Una delle
poche cose veramente nostre.
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