Il 25 e 26 giugno scorsi si è svolta a Genova la storica
conferenza “Punto G, Genere e Globalizzazione”, un incontro a cui hanno
partecipato numerose donne, sia tra le relatrici che nel pubblico, e durante il
quale è emerso come, sia nel mondo musulmano che in quello occidentale, le
donne subiscano ancora forti differenziazioni di genere che le vedono sempre svantaggiate
nella politica, nel lavoro, nella famiglia.
Ma ciò che mi ha colpita maggiormente è stata l’inaspettata performance teatrale di
alcune delle operaie della Omsa, la famosa azienda di calze di Faenza che
improvvisamente, nonostante gli affari andassero bene, ha deciso di chiudere in
Italia e di spostarsi in Serbia, dove la manodopera costa meno, lasciando a
casa 347 operaie.
Dopo aver provato a denunciare inutilmente questa
ingiustizia su qualche giornale e in qualche programma televisivo, le operaie
della Omsa hanno deciso di ripartire dal basso, sensibilizzando le persone
comuni, direttamente per strada.
E così, dopo un breve laboratorio teatrale tenuto dalla
compagnia italiana “Teatro dei due mondi” e quella francese “Theatre de l’Unitè”,
è nato qualche mese fa uno spettacolo estremamente coinvolgente dal titolo “Al
lavoro!”, che comincia proprio con le donne Omsa che marciano come tanti
soldatini vestiti di rosso per strada al grido di “Omsa, Omsa” per lasciare
senza fiato quando rompono improvvisamente le righe e corrono verso i presenti
sussurrando all’orecchio “Aiuto”.
A un certo punto della performance una di loro chiama ogni
collega col megafono per nome e cognome
e le urla che è licenziata, finché non le vediamo cadere a terra una dopo
l’altra. Anche questa è una scena che colpisce al cuore, perché sappiamo bene
che quelle donne, in gran parte nel limbo della cassa integrazione ancora per
qualche mese, non sono attrici, e quella drammatica notizia l’hanno davvero
avuta e davvero ha ucciso una parte di loro.
In un altro momento dello spettacolo assistiamo invece a una
discussione tra le operaie e l’unico uomo presente nel gruppo - che interpreta
proprio il proprietario della Omsa - sul problema della chiusura dell’azienda.
Quando l’uomo giustifica il trasferimento del lavoro in Serbia con motivi di
profitto, dicendo che mentre ciascuna di loro gli costa 900 euro al mese ogni
operaia serba gli costerà 300 euro al mese, una delle operaie Omsa gli chiede
“Ma che cosa hai al posto del tuo cuore, una calcolatrice?”.
Quante volte sarà venuta in mente anche a noi una frase del
genere, rivolta ai datori di lavoro o anche ai nostri stessi ministri che
spostano numeri su tabelle di exel come se fossero noccioline, fregandosene
della vita della gente che da quei numeri verrà completamente stravolta!
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